a cura di Luigi Moraldi
Il 4 ottobre 1946 Tago Mina, curatore del Museo Copto del Cairo, acquistò, con poca spesa, per il Museo uno scripto copto (oggi è il Cod. III); lo fece osservare da due studiosi francesi (F. Daumas e H. Corbin) che non ne compresero gran che, ma uno di essi ne parlò, a Parigi, con A. Guillaumont.
Nell’ottobre dell’anno seguente T. Mina ricevette la visita di J. Doresse giunto in quei giorni dalla Francia, estrasse da un cassetto lo scritto copto e lo pose sotto gli occhi del visitatore domandandogli se era capace a identificarne il contenuto: i caratteri erano molto chiari, la disposizione elegante, Jean Doresse lesse, quasi incredulo: «Libro sacro degli Egiziani sul grande Spirito invisibile…»; scorse altre pagine e lesse: «Il libro segreto di Giovanni…»; proseguì imbattendosi in due testi quasi identici: la lettera di «Eugnosto, il beato…» e «Sophia fesu Christi».
Fu così il primo studioso a «scoprire» un manoscritto gnostico di Nag Hammadi.
Tra i primi a essere posti al corrente furono tre personalità di fama mondiale: il canonico É. Drioton, il prof. H.-Ch. Puech, W. C. Till.
Quest’ultimo stava preparando l’edizione di un codice copto del Museo di Berlino.
Qual era la provenienza del codice in mano a T. Mina?
Le voci correnti indirizzavano in una regione a nord di Luxor, ma si diceva pure che a corto di materiale più adatto, nella famiglia dell’ignoto scopritore più volte si accese il fuoco con fogli sparsi di altri codici papiracei.
Era vero, oppure si trattava di una diabolica trovata di antiquari per sollecitare il mercato e far salire il prezzo di altri codici ?
Nel giro di pochi giorni, gli antiquari, onnipresenti, ne sapevano già più del solerte T. Mina.
E fu ancora il Doresse che, nello stesso anno, ebbe la prova tangibile di altri papiri provenienti dall’identica fonte.
L’antiquario belga A. Eid gli aveva mostrato alcuni fogli appena acquistati: dopo una prima scorsa, lo studioso concluse: «queste pagine contenevano indubbiamente scritti gnostici – un Vangelo di Verità, una lettera a Regino sulla risurrezione, e qualche altro trattato nuovo per noi -, ma erano meno attraenti del manoscritto in nostro possesso»
E qui si sbagliava!
Si trattava niente meno del Codex Jung, oggi Codice I.
Le ricerche si fecero subito affannose in molte direzioni, ma non si approdò a nulla.
Sia T. Mina sia il Doresse si convinsero che non c’era più nulla da scoprire, e che era ora di togliere il velo del segreto rivelando tutto al pubblico: alla stampa egiziana provvide il curatore del Museo e il 12 gennaio del 1948; H.-Ch. Puech e J. Doresse ne diedero la comunicazione ufficiale alla Académie des Inscriptions et Belles-Lettres.
In realtà si era appena agli inizi e gli antiquari ne sapevano assai di più degli studiosi.
Sempre nel 1948, il Doresse, in Francia, riceve da amici alcune foto di manoscritti copti con la domanda di un parere competente.
Si trattava di foto «di fortuna», ma lo studioso aveva ormai acquisito una certa familiarità e si rese subito conto che l’interesse sorpassava di gran lunga quanto sapeva fino allora.
Nonostante le difficoltà politiche e belliche dell’Egitto, si mossero personalità di indiscusso valore, come R. Dussaud e C. F. Schaeffer, affinché al Doresse fosse spianata la strada per l’immediato ritorno al Cairo.
Come si saprà dopo, un bandito di Al-Qasr ( = Chevnoboskion), venuto in possesso di un certo numero di codici li portò al Cairo ove furono acquistati dall’antiquario cipriota Ph. J. Tano il quale si recò poi subito a Nag Hammadi alla ricerca di altri.
Non è chiaro come e per quali motivi egli affermò che i nuovi Codici appartenevano alla collezionista italiana signorina Marika Dattari abitante al Cairo.
A ogni modo la Dattari pose i codici a disposizione del Doresse col permesso di esaminarli, prendere note, trascrivere quanto trovava di più singolare, di compiere cioè ogni ricerca atta alla loro identificazione e valorizzazione.
Al giovane studioso bastò poco per rendersi conto che questa volta non si trattava di fogli isolati, ma di codici in originali rilegature in pelle, tutte uguali.
A mano a mano che leggeva passava dalla sorpresa allo stupore: emergeva, per la prima volta una «completa biblioteca sacra» di una setta gnostica.
«La letteratura faraonica non ci aveva mai trasmesso una così ricca e omogenea serie di libri» .
Per la prima volta furono allora letti titoli sensazionali, come:
Apocalisse di Adamo a suo figlio Seth (Cod. V), Vangelo di Tomaso (Cod. II), Parafrasi di Shem (Cod. VII), Interpretazione della gnosi (Cod. XI), ecc. e ci si rese conto che i trattati erano più di 40.
Un tesoro del genere non poteva restare in mano a privati.
Il canonico É. Drioton nella sua qualità di Direttore Generale del Servizio di Antichità (carica che dal Manette in poi fu sempre tenuta da uno studioso francese) autorizzò J. Doresse e T. Mina a intervenire: l’intervento fu tanto più semplice e rapido in quanto, almeno ufficialmente, il possessore era la Dattari, che non tardò a consegnare tutto (nella primavera del 1949) al Conservatore del Museo Copto del Cairo; consegna più che giusta, ma alla proprietaria spettava giuridicamente una certa somma: quella richiesta dalla Dattari era più che modesta, ma ne seguirono spiacevoli strascichi giuridici.
Ormai era ben noto che questi manoscritti costituivano una delle più sensazionali scoperte fatte in Egitto, fino ai nostri giorni, e il cui valore scientifico superava quelle spettacolari della tomba di Tuthankamen.
Giustamente osservò il Doresse: perché mai verso A. Eid non fu usato lo stesso rigore di cui si diede prova nei confronti della Dattari?
Tanto più che – e qualcuno dei pochi responsabili ne era a conoscenza – il codice (sia pure parziale) fu portato in Europa e acquistato dall’Istituto Jung di Zurigo.
Le vicende dei manoscritti copti entrarono così nel pieno dei dibattiti.
Antiquari e studiosi erano alla affannosa ricerca di primati sia nell’acquisizione sia nella visione diretta per studio e pubblicazione e, come in ogni caso di questo genere, procedimenti senza scrupoli, rivalità e personalismi divennero fatti quotidiani.
I manoscritti consegnati dalla Dattari, e con essi l’inventario provvisorio steso dal Doresse, di comune accordo, furono posti al sicuro in una valigia sigillata e affidati al Direttore delle Antichità, É. Drioton.
Nell’ottobre del 1949 morì Togo Mina.
Il suo successore Pahor Labib, fu eletto nel 1952; intanto aveva avuto luogo una vasta riorganizzazione nel settore delle Antichità e alla Direzione del Servizio era andato uno studioso egiziano, mentre al Museo Copto fu posto, per la prima volta, un Direttore – appunto P. Labib – e non più un semplice Curatore; i famosi manoscritti, nella valigia sigillata furono accolti ufficialmente nel Museo Copto il 9 giugno 1952 e al Direttore fu data l’autorizzazione di concedere permessi per consultazione e studio.
Ma per un insieme di eventi, il Direttore del Museo non potè pensare ai manoscritti copti fino al 1956, anno in cui furono dichiarati proprietà di Stato e ne fu affidata la responsabilità al Museo Copto.
Dal 1946 al 1956 non è da credere che attorno ai manoscritti non ci siano stati i soliti intrighi, i soliti intralci, le solite gelosie di antiquari e studiosi a diversi livelli.
Ma ciò che maggiormente gravò sullo studio e pubblicazione furono eventi molto più vasti e complessi ai quali è doveroso accennare per comprendere il passato e la nuova svolta che ne seguì.
Nel 1947 scoppiò la guerra tra l’Egitto e lo Stato di Israele; nel 1952 ebbe luogo la rivolta contro il re Faruk, la sua abdicazione, la proclamazione della Repubblica (giugno 1953), e l’avvento al potere di Nasser (1954); e nello stesso anno fu avviata l’evacuazione delle truppe britanniche dal canale di Suez; seguirono la nazionalizzazione del canale, la riforma agraria, l’avviamento della grande diga di Assuan, l’infausto intervento armato di Francia e Inghilterra contro l’Egitto, e il fulmineo attacco israeliano (guerra del Sinai, 1956) che colse la diffìcile situazione interna e internazionale nella quale si trovava l’Egitto.
a cura di Luigi Moraldi