Luogo del ritrovamento dei manoscritti
a cura di Luigi Moraldi
Nel 1950 le ricerche di J. Doresse avevano permesso di individuare, con sufficiente precisione, il luogo del ritrovamento; ma fu soltanto molto più tardi che si poterono avere maggiori particolari, istituire confronti di controllo e, soprattutto, accertare meglio il luogo e inquadrare il contesto storico dei manoscritti.
Ancor oggi c’è chi parla dei manoscritti del Mar Morto, intendendo gli scritti degli esseni trovati nella regione di Qumran: ma nel Mar Morto non furono mai trovati manoscritti, ed è perciò più normale parlare di Manoscritti di Qumran.
Qualcosa del genere avvenne per i manoscritti copti: a Nag Hammadi (lungo la riva occidentale del Nilo) non furono trovati manoscritti, bensì furono scoperti in un punto abbastanza preciso della falesia del Jabal al-Tarif costeggiante la riva orientale del Nilo, a circa 11 km a nord est della città di Nag Hammadi, sita sulla riva opposta del fiume; il Doresse avrebbe preferito designarli dal nome del villaggio più vicino, Che-noboskion (Chenoboskia = Al-Qasr): villaggio degli scopritori, luogo ove i codici furono inizialmente custoditi, ove furono divisi poco alla volta per la vendita, luogo legato anche alla conversione al Cristianesimo di san Pacomio e a uno dei suoi monasteri.
Prevalse tuttavia il nome di Nag Hammadi probabilmente perché tutti gli studiosi – dal Doresse ai membri della recente missione archeologica americana – fecero capo a questa bella cittadina.
Jabal al-Tarif è crivellato di grotte – se ne contano più di 150 per lo più sono allo stato naturale, ma alcune recano testimonianze della più remota antichità egizia (tombe VI Dinastia 2350-2200 a.C.), testimonianze romane (del 11 secolo d.C.) e cristiane (croci e tratti di Salmi segnati in rosso sulle pareti).
Dopo 30 anni dalla scoperta (nel 1975), Muhammad ‘Ali al-Sam- man, lo scopritore, narrò che intorno al mese di dicembre del 1945 si recò qui per raccogliere terra da concimare i campi, e con lui c’erano i suoi fratelli; scavando presso un grosso masso, si imbatté in una giara alta quasi un metro, munita di coperchio, assicurato – probabilmente – con bitume; rotta la giara, si trovò davanti ben 13 libri rilegati in pelle; questo numero fu spesso contestato da alcuni studiosi, ma Muhammad ‘Ali si mostrò sempre sicuro: erano tredici.
Di lì a qualche giorno i fratelli colsero un’occasione propizia per vendicare l’assassinio del loro padre, con una vendetta del sangue in piena regola: sorpresero l’assassino, lo squartarono, ne estrassero il cuore, e se lo divorarono.
Un cristiano copto che intendeva arrestare questo rito fu dissuaso con minacce e invitato piuttosto a seppellire i resti del malcapitato.
Temendo che, perquisendo la loro casa, la polizia si imbattesse nei manoscritti, i fratelli li divisero tra persone fidate.
E fu così che un codice capitò in mano a un insegnante di storia, un certo Raghib Andarawus, il quale lo portò al Cairo e (dopo alcune peripezie) il codice fu acquistato dal curatore del Museo Copto, Togo Mina; si tratta del Cod. IlI, del quale feci cenno all’inizio, e nel Museo si trova il regolare contratto di acquisto datato il 4 ottobre 1946.
Il Raghib fu, in seguito, la principale fonte di informazione sulle vicende dei manoscritti dal loro ritrovamento fino al Cairo.
a cura di Luigi Moraldi